EMILIO FRANZINA

 

LA VICENZA DI SALO’

 

Il libro si apre, nel prologo,  con una citazione di un articolo di Giorgio Bocca che polemizza  con gli “storici da strapazzo” i quali all’improvviso si sarebbero “inventati”, a proposito della Repubblica sociale italiana e del suo esercito, una falsa “epopea guerresca”, fascista e antidemocratica, che ha dato luogo a “un revisionismo storico che racconta di una Resistenza, diretta da comunisti sanguinari, che miravano all’instaurazione di una dittatura, colpevoli di delitti e stragi efferati”.

Il primo capitolo si apre con la rievocazione  del sequestro nel 1997, da parte dell’anonima sarda, di Leone Concato, compagno di studi di Olinto Salviati, Bruno Scaroni, Mario Maroni, tutti destinati a occupare ruoli  di primo piano in città, fascista convinto che gli italiani sotto il regime sarebbero diventati  “padroni del mondo”. Prelevato in una villa a Cala di Volpe nella Costa Smeralda non farà più ritorno a casa, nonostante che i famigliari avessero pagato 670 milioni di lire di riscatto.  Era coetaneo di Neri Pozza, Toni Giuriolo, e, un anno più un anno meno, di tutta un’altra serie di suoi concittadini illustri balzati alla ribalta delle cronache politiche e culturali di Vicenza fascista: Nino Dolfin, Giovanni Caneva, Guido Piovene, Guglielmo Cappelletti, Otello De Maria, Giuseppe Faggin, Giorgio Oliva, Antonio Barolini, Mario Dal Pra, Mariano Rumor, e Ettore Gallo, tutti nati fra il 1908 e il 1916, e fioriti fra la metà e la fine degli anni Trenta. Tra costoro a sentirsi antifascisti erano solo il cattolico Cappelletti e, assieme al notissimo Toni Giuriolo, i socialisti Livio Bottazzi e Marcello De Maria (fratello di Otello).  Gruppo destinato a sgretolarsi dopo il 25 luglio e nei seicento giorni della Repubblica di Salò. Al  gruppo dei più giovani approdati all’antifascismo appartenevano i cattolici del Circolo di Santo Stefano,  guidato dai monsignori Vincenzo Borsato e Bruno Barbieri,   cui facevano parte Quintino Gleria, Giorgio Oliva, Uberto Breganze,  e il gruppo, per merito di Giuriolo, di tutti i futuri militanti del Partito d’azione, come Gigi Ghirotti, Licisco Magagnato, Luigi Meneghello, Domenico Corà, Renato e Renzo Ghiotto.  Questi giovani pressoché ventenni liberalsocialisti “in pectore”, ma tutti ancora fascisti almeno sino al 1942, non si erano ancora misurati con la debole e molto carsica opposizione al regime e si radunavano, in modo non clandestino (come usava ricordare Neri Pozza), in confraternite o gruppi ristretti, politicamente ininfluenti e inoffensivi.

Come nota Mario Mirri, a Vicenza, accanto a quel consenso al fascismo, su cui insiste la storiografia più recente, non sono  mai mancate fasce consistenti di dissenso “in particolare, c’erano molte persone che avevano memoria delle forme della vita politica precedente alla vittoria del fascismo, che avevano un preciso ricordo della guerra civile attraverso la quale i fascisti s’erano imposti al paese, e c’erano anche coloro che, già militanti dei vecchi partiti (socialisti, repubblicani, popolari e liberali), si tenevano in disparte  e non aderivano alle nuove forme di manifestazioni politiche”. Del clima che arieggiava in città durante la guerra significativa una pagina scritta da Antonio Barolini, nell’aprile del 1942: “Tutti hanno paura della guerra e, in genere, purché finisca, sono disposti a tutto; molti parlano tranquillamente di sconfitta come appunto si trattasse dell’esito della partita Vicenza-Udinese, i più desiderano la vittoria per sentimentalità nazionale, ma è  questa una maggioranza composta di generici, di pusillanimi e di egoisti che, intenta ai propri affari e alle proprie condizioni, vorrebbe salvare capra e cavoli”. La solita Vicenza scettica, individualista e tutta chiusa nel suo “particulare”. Molti avevano visto la guerra come la ribellione di popoli poveri contro i popoli ricchi, “plutocratici”, come diceva Mussolini, guerra che, però, come nota Giusepe Marchiori, in “Esule in patria”, era diventata “strage, violazione di ogni diritto, guerra tedesca, guerra imperialista e la nostra parte fu di satelliti, ladri di polli accanto ai “gangsters” nazisti, esperti d’ogni malizia”. Dopo l’8 settembre anche Vicenza viene occupata dai tedeschi che procedono al disarmo e alla deportazione in Germania di molte centinaia di soldati di stanza nelle caserme e si assiste alla ricomparsa in forze dei più irriducibili sostenitori del fascismo. “A Salò andarono da Vicenza – scrive Franzina – le seconde file di un regime entrato in crisi già prima del 25 luglio”. La Vicenza di Salò è la “provincia più agitata”, come scrive a Mussolini, nel novembre del 1944,  il direttore del “Resto del Carlino” Giorgio Pini, in visita d’ispezione al Nord della penisola, divenuta teatro di una lotta senza quartiere fra fascisti, tedeschi e partigiani. Fin da giugno Vicenza figurava in Veneto, per numero di esecuzioni (fra “legali” e sommarie), al vertice di una sanguinosa classifica delle morti decretate dai fascisti e dai tedeschi e contabilizzate dal Ministero dell’interno della Rsi, per richiesta del Duce. La grande parte delle popolazione vicentina era avversa al Governo Sociale Repubblicano e questa avversione era appoggiata dai parroci e documentata dagli altissimi ascolti clandestini di Radio Londra. A tale avversione si opponevano, come scriveva il “Popolo Vicentino”, i gesti di “purissimo” volontariato di giovani che si arruolarono nelle Brigate nere e nei vari reparti del rinato esercito repubblicano. Fra questi Luciano Rainaldi, che poi diventerà esponente di  spicco del Pci vicentino, che scriveva al suo insegnante Enrico Moneta: “Mi vanto ora volontario della Compagnia della morte. Non sono fascista, ma il fascismo rappresenta l’Italia e sono italiano”. La “Compagnia della morte” vicentina, istituita ai primi di aprile del ’44 e trasferita a Schio nel giugno successivo, aveva come comandante un capitano di nome Tomba e tutto un assetto funerario contrassegnò l’atmosfera già lugubre in partenza dei seicento giorni di Salò, dove l’idea d’Italia sembrava ormai in via d’estinzione o addirittura del tutto estinta. Questi giovani, ingenui e generosi, però,  affrontavano la morte “per amor di patria”, identificando, ancora nel ’44, l’Italia con il fascismo e accentuando ancor di più il solco fra nazione e antinazione. Ma molti altri giovani avevano cominciato a elaborare una diversa idea di patria, diversa da quella imposta dall’indottrinamento ideologico, e la difendevano, alcuni “cospirando”, altri ribellandosi, armi alla mano, e dandosi alla macchia, tutti opponendo al fascismo una qualche forma propria di rifiuto”. La Repubblica di  Salò divenne così la “Repubblica delle discordie”, tragico teatro di una dura lotta di liberazione dalla dittatura e contemporaneamente di una terribile guerra civile fra italiani, guerra fratricida di cittadini  che sapevano di combattersi fra fratelli, lotta, come scriveva un carabiniere della Gnr di Crespadoro nel 1944,  di “odiosi movimenti tra fratelli”.

Interessantissimo il capitolo dedicato da Franzina, militante di  sinistra, ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Verona, alle vittime fasciste della giustizia sommaria popolare e partigiana, enfatizzata dai libri di Giampaolo  Pansa”, come “Il sangue dei vinti”.  Si tratta per Franzina di uno “schema di lettura neofascista dei fatti esaminato con cura e grande intelligenza critica, in tanti lavori, da Francesco Germinario”. Una lettura della storia che tende alla “vittimizzazione dei carnefici” e a far passare, come ha scritto Klinkhammer, “i vinti nella veste di eroi”. Una lettura   “apparentemente storiografica”, apologetica e rancorosa, che prende a pretesto il famosissimo eccidio di Schio, dell’inizio del luglio del ’45, un eccidio “fuori stagione” ( o come altri hanno detto “fuori tempo massimo”),  e senza particolari reazioni di condanna, all’epoca, nell’opinione pubblica antifascista, nonostante l’enormità del bilancio di morti che comportò. L’eccidio rappresentò – scrive Franzina – “un macigno simbolico negativo e il principale ostacolo al rassodarsi in loco di una tradizione resistenziale in tutto e per tutto condivisibile e oggetto di continue recriminazioni e di ricorrenti campagne di stampa finalizzate alla riabilitazione, col sangue delle vittime che in grado diverso lo avevano sostenuto in vita, del fascismo di Salò”. Questa  storiografia “parastoriografica”, sostenuta da campagne di stampa di giornali, dirette dal Corriere della Sera, non fa altro che “accentuare quella confusione di piani di giudizio tra pubblico e privato e provano l’immutabilità delle posizioni sostenute dopo il ’45 dagli ex fascisti”.

 

                                                                                               Gianni Giolo

 

E. FRANZINA, Vicenza di Salò (e dintorni), Agorà-Factory, euro 25,00