G. D. MAZZOCATO

 IL CASO PAVAN

 

Fulvio Tomizza ha definito lo scrittore trevigiano Gian Domenico Mazzocato il cantore  degli ultimi, perché ha dato voce e dignità alla figura del “vinto” veneto, che mai aveva trovato spazio nella narrativa. La sua scrittura si segnala per l’impegno, il rigore e l’acutezza con cui analizza e racconta la civiltà del Veneto e la sua gente. Il suo primo romanzo, pubblicato dalla nota casa editrice  Santi Quaranta,  Il delitto della Contessa Onigo, è stato un caso editoriale con le sue molte edizioni e la riduzione a teatro. Sono seguiti, sempre con la stessa casa editrice, Il bosco veneziano e Gli ospiti notturni. Ora si ripresenta con un nuovo romanzo Il caso Pavan che dà spazio agli ultimi veneti rappresentati da contrabbandieri e sbirri, contadini e pisnenti (termine locale per indicare i nullatenenti), biscazzieri e ladri, teatranti e ciarlatani, borsaioli e artisti, prostitute e perdigiorno, un mondo alla deriva in cerca di sbarcare il lunario con i mestieri più strani e impensati, come il sedicente medico Pilon inventore di una panacea fatta di sterco d’asino mescolato con preziose e selezionate erbe d’India, il titimalo, il solano e il tossico d’Endro. Un racconto realistico e duro, talora cupo, come è tipico della scrittura di Mazzocato, che ruota attorno a Tomaso Pavan, alias Tomà Marchi, che insegue il senso della propria esistenza e la sua stessa identità. Parte, Tomaso, dal paesino, abbarbicato al declivo che guarda sui laghi di Revine, in cui è nato, approda a Venezia, la Venezia del 1732 che vede la laguna diventare un mare di ghiaccio, “come se l‘acqua e la terraferma fossero una cosa sola, che si abbracciassero e si  tenessero strette e avvinghiate come mai era accaduto nel passato, a ribaltare l’ordine costituito, le abitudini, la vita”. Tomaso vaga a lungo per le calli, guarda i ragazzi che sul ghiaccio fanno frullare una trottola colorata,  si trova davanti a Murano, “con le sue luci vive come stelle nell’aria fredda e tersa”, e poi all’isola di San Michele, “la cavana di tutti i barcaioli che  si avventurano da quella parte della laguna”, nota cinque sagome nella notte: sono contrabbandieri. Si unisce a loro, riesce a far vendere tutta la partita di tabacco di grande qualità, seccato con grande cura, conservato tra graticci di canne e riposto in botti ben stagionate, e  poi, spartiti i soldi, si separa da quegli  amici pericolosi e, senza sapere dove andare e cosa fare, si porta alla Giudecca, brulicante di uomini, donne, turchi, levantini di mille provenienze diverse. Si aggrega  a una compagnia di guitti i Desiosi,  che si esibiscono in spettacoli di provincia, nelle piazze e nei granai,  sbarca a Corfù,  una delle isole del mare greco, dominio della Serenissima, dove sbandiera il leone di San Marco. Ritrova l’amico Cosma, un mercante di stoffe, che vive in una capanna, dall’arredamento semplicissimo: un giaciglio grande, una tavola, qualche sedia e qualche suppellettile e una scansia piena di libri. Nell’isola azzurra,  dove i giorni trascorrono lenti e le stagioni si assomigliano tutte, ha imparato il valore del tempo. E  qui la storia qualunque e insignificante di Tomaso si allarga e si immette nel gran mare del mito. Cosma gli indica un punto lontano, oltre l’orizzonte: l’isola di Itaca, l’isola di Odisseo, l’eroe greco più famoso che aveva conquistato una città invincibile, ma si era attirato l’ira degli dei, perché era un uomo libero e faceva quello che voleva. Era intelligente, e persuasivo nel parlare, la sua voce era musica, aveva gesti eloquenti. Nonostante l’odio di Poseidone, il dio del mare, riesce  a sbarcare nella sua isola e nella sua reggia, ad abbracciare la moglie bellissima e l’amatissimo figlio. “Tanti anni prima – racconta Cosma – quando era giovane, forte e splendente, che poteva essere scambiato per un dio, nel suo vagabondare Odisseo era approdato all’isola di una dea bellissima che si chiamava Calipso, una maga. Con le sue erbe e le sue arti la dea riuscì ad  offuscare ogni ricordo nella mente dell’eroe”. Ora  il vecchio Odisseo,  ritornato in patria,  è preso dalla nostalgia della dea e vuole ritornare a vederla. La moglie Penelope e il figlio Telemaco lo supplicano invano di rinunciare ai suoi sogni, ma egli riprende, su una piccola nave,  la via del mare. Ritrova l’isola di Calipso, ma non riesce  a scansare uno  scoglio,  fa naufragio e il mare lo butta morente sulla spiaggia. L’eroe rivede la dea che gli avrebbe ridato  le forze e restituito la giovinezza, ma Calipso non lo riconosce e lo lascia morire solo sulla spiaggia. “Capito cos’è il tempo, Tomà?” – conclude Cosma – Per Odisseo era trascorsa una vita, per la dea non era passato neanche un istante, nemmeno uno sbattere d’occhi. Non si scherza con il tempo”. Poi dalla luce del mito alla luce di uno straordinario evento cosmico, l’aurora boreale del 10 dicembre 1737: “le gazzette non parlavano d’altro e formulavano le ipotesi più disparate. Si citavano i libri dei viaggiatori che erano stati nel nord dell’Europa e si interrogavano i vecchi ebdomadari per vedere se mai vi era stata prevista quella luce che aveva squarciato la notte. Quanto alle memorie veneziane, difficile, molto difficile ritrovare qualcosa di simile nel passato”. Alla fine dalla luce  della “notte limpidissima dei miracoli” al buio della prigione. Mazzocato ritorna al tema caro del suo primo libro, la pellagra, che aveva fatto impazzire il pisnente  Piero Bianchet e lo aveva spinto a tagliare la testa alla parona,  la contessa Onigo. In un libello affisso al mercato di Treviso, in piazza del Duomo, Tomaso denuncia che “la pellagra è malattia rustica e non civica”: tutta colpa del mahiz, della polenta, che era l’unica cosa che i contadini mangiavano. L’autore del libello viene incarcerato e definito dall’Ufficio del Maleficio  farnetico et furioso.

 

                                                                                                    Gianni Giolo

G. D. MAZZOCATO, Il caso Pavan, Editrice Liberale

VENETO OSCURO: BANDITI DEL MONTELLO            

“La narrativa di Gian Domenico Mazzocato – scrive Fulvio   Tomizza – dà la sensazione di essere dentro i grandi romanzi siciliani. Al tempo stesso il mondo veneto ne risulta portato al massimo di estensione e di completezza”. Il tema di tutti i suoi romanzi, di cui il più famoso è il best seller “Il delitto della contessa Onigo” è la saga dei vinti veneti, vinti in senso verghiano. Dalle pagine dello scrittore trevigiano scaturisce una umanità dolente, l’umanità del profondo Veneto tra Ottocento e Novecento, quando pellagra e colera, ignoranza e miseria condizionavano la vita di un intero popolo. Un passato che la scrittura di Mazzocato rivela senza retorica, nella sua crudezza ed emozionante verità. Nel nuovo volume “Veneto oscuro. Banditi del Montello” lo scrittore riunisce due storie già narrate “Delitto a filò” e “Il ritorno”, tre romanzi che raccontano eventi dimenticati ma che, tra il 1890 e il 1910, ebbero nel Veneto una risonanza enorme. Tre vicende umanissime, tre ampie inchieste storiche e sociali, tre fatti raccontati in  presa diretta, con la verve del grande romanzo e l’incalzante interesse della cronaca.  In particolare “Banditi del Montello” racconta quello che dovette sembrare ai contemporanei il colpo  del secolo: per entità del bottino, per il terribile delitto che ne scaturì, per il suo amplificarsi nella fantasia popolare, per il fluviale processo in cui furono giudicati i colpevoli, per la diffusa consapevolezza che anche altri avevano partecipato al colpo e che probabilmente il “cervello” dell’operazione rimaneva nel buio. Nel 1886, nella notte tra il 27 e il 28 aprile, una banda di ladri svaligiò, a Solighetto, il palazzotto del conte Guido Brandolin. Solighetto è un villaggio di poche case, a nordest del Montello, sulla strada che da Pieve, costeggiando Soligo, va verso Follina. I banditi asportarono una cassaforte pesantissima e realizzarono la più imponente refurtiva di cui mai si fosse avuto notizia: vicenda terribile e dolorosa, che aveva radici nella miseria e nell’ignoranza indotte dal secolare  esilio delle genti montelliane dalla loro collina. Il Montello dopo esser stato espropriato dal doge Nicolò Tron nel 1471 ritornò alla sua gente nel 1892 spogliato e depredato di ogni risorsa. La zona del Montello è il ventre molle del Veneto e i montelliani erano per diceria un popolo di ladri. Al processo Brandolin il pm Cisotti li definisce “una popolazione raminga ladra di professione”. Più di 21 mesi tra il furto di Solighetto e la sentenza, un delitto mai del tutto chiarito durante la spartizione del bottino, 17 imputati fra cui due donne, quasi tutti condannati, cinque dei quali ai lavori forzati a vita. Agli altri furono inflitte decine di anni di lavori forzati, di reclusione, di libertà vigilata. Le condanne furono pesanti, ma probabilmente il cervello dell’operazione non era tra gli imputati. E tanti furono gli interrogativi che il processo non chiarì. Soprattutto non risolse l’enigma di fondo: chi aveva dato l’avvio al colpo? Il bottino fu recuperato solo in parte. La banda di Soligo non era certo la meglio organizzata ma probabilmente la più numerosa, quella che mise a segno il colpo. Del processo che seguì non vi è traccia alcuna nella memoria della gente veneta, Eppure fu tragico blasone un emblema della storia di quegli anni. Il Mazzocato, come Manzoni, ricorre all’espediente del manoscritto ritrovato per rendere più viva e drammatica la storia di quel colpo fatale: un quaderno sgualcito, rinvenuto nel retrobottega di un robivecchi, tra scatoloni di carte polverose. Manca la copertina e l’autore non poteva non essere anonimo. Un romanzo avvincente che terrà  avvinto il lettore dalla prima all’ultima pagina.

 

Gianni Giolo

G.D. MAZZOCATO, Veneto oscuro, banditi del Montello, Zanetti,  euro 10,00

IL DELITTO DELLA CONTESSA ONIGO

Il Veneto della miseria e della pellagra viene rievocato in un primo grande libro di Gian Domenico Mazzocato “Il delitto della contessa Onigo” (ma il titolo originario dato dall’autore era “Processo per pellagra”) che è diventato subito un best seller della nostra regione. E’ la storia di Pietro Bianchet, un nullatenente, un bracciante, un pisnente, che dilaniato, nel corpo e nello spirito, dalla atavica ed endemica pellagra, uccide in un raptus di follia la parona, la contessa Onigo, una nobildonna tirchia, arida e perfida, che gli aveva negato un po’ di grano e il permesso di tornare a casa per vedere una figlia appena nata.  Linda Onigo, contessa trevigiana di religione valdese, venne uccisa l’11 marzo 1903 nel giardino del suo palazzo. Nel romanzo intenso e appassionato che si allarga dalla sfera individuale a quella storica-sociale, l’autore si avvale di due diversi registri stilistici: uno, realistico, riguarda il delitto storicamente accaduto; l’altro, psicologico,  è dato dal diario del conte Francesco Avogrado degli Azzoni, amico della contessa, che rievoca soprattutto il processo Bianchet, celebrato a Venezia.  In una lingua ora serrata e scabra, ora attraversata dall’incanto dei racconti di veglia e della memoria dell’oralità contadina, Mazzocato, squisito traduttore di Tacito e di Livio, scrittore colto, culto e raffinato di rara sensibilità stilistica ed efficacia narrativa, offre un suggestivo e grandioso quadro della provincia veneta fra ‘800 e ‘900: Bianchet condensa e  riassume in un gesto tragico il rancore delle plebi contadine colpite dallo sfruttamento cinico degli agrari locali, di cui si fa archetipo la contessa Teodolinda Onigo, resa dall’autore ben al di là della sua condizione sociale con una penetrazione interiore e uno scavo psicologico che coglie tutta la dimensione tragica e chiusa di un’anima provata, insensibile e solitaria.  Nella roncola omicida di Bianchet si scaricava l’odio comune di tutto un popolo, l’ira repressa che apparteneva a un’intera generazione di sfruttati, di inselvatichiti dalla sordida avarizia della contessa. Bianchet fu assassino e vittima ad un stesso tempo: analfabeta, degradato, indebolito da ogni possibile tara familiare, invecchiato e abbruttito da appena ventisei anni di una vita che non gli aveva riservato alcuna soddisfazione e non aveva alcun sbocco. L’arte e l’acuta sensibilità di Mazzocato consiste nel delineare, con forti squarci coloristici a tinte fosche, la tragedia di un mondo e di un’epoca e nel saper scolpire e delineare figure indimenticabili che sono, oltre alla contessa, lo stesso Bianchet,  riscattato in tal modo dal silenzio inesorabile della cosiddetta grande storia, il Bresolin (maestro rurale e socialista) di Trevignano, il personaggio di Caterina Onigo, madre di Linda. Il delitto della contessa è uno di quei libri eccezionali in cui la geografia abissale della anime si fonde con la storia, con il retaggio ancestrale e favoloso del mondo contadino, con i paesaggi della Pedemontana e del Montello e con le miserie sociali dei potenti. In un passo di rara efficacia e di straordinaria evidenza narrativa l’autore rievoca la storia dell’infanzia e della vita del protagonista: “Bianchet aveva una strana pace ora che il processo era iniziato. Ma l’odio e l’ostilità rimanevano grandi dentro di lui perché nulla lo poteva addolcire e smussare. Non era morto pazzo di pellagra suo padre? Non era morto come un cane nell’ospedale di Crespano liberando gli altri della sua presenza e prima ancora liberando se stesso? Bianchet intuiva che anche quella sarebbe la sua fine. Lo aveva compreso dallo squamarsi della sua pelle che durante l’inverno diventava anche insensibile come una foglia secca. Gli tornava alla mente l’ultimo novembre vissuto da uomo libero: un novembre freddo e nebbioso come tanti altri e trascorso, subito dopo i giorni dei morti e dei santi, a eseguire in fretta gli ultimi lavori prima che il gelo dicembrino irrigidisse  ogni casa… Ma la sua fatica gli pareva troppo grande per essere sopportata a lungo e troppo limitata per poter significare qualcosa. Bianchet avvertiva allora con dolore che il suo corpo un po’ alla volta degenerava. Partecipava al disfacimento continuo e fradicio delle foglie, della morte di una  natura non più visitata dalla luce. Allora nella sua solitudine sentiva nascere con forza dirompente una ribellione, una voglia di atti estremi e definitivi, il desiderio di un gesto tremendo e brusco come un fulmine sulla croce appuntita del campanile. Un impeto breve, un colpo vibrato con forza e devastante. Era il simiton. Il simiton  nasceva quando la sua  pelle gli sembrava un involucro dentro al quale si sentiva come estraneo, un guscio duro eppure sfilacciato e dalle scaglie sottili e aguzze… Suo padre si era perduto e aveva finito con l’impazzire. Aveva un nome gentile e azzurro come nei quadri in chiesa, profumato di annuncio e di ritualità antica, Angelo. Era morto come un cane. Pietro poteva dire di non averlo nemmeno conosciuto perché era morto quando lui aveva due anni e solo sua madre gli aveva restituito a brandelli l’immagine di un uomo devastato. Quel giorno il giudice aveva scavato rozzamente nella sua memoria. Perché chiedergli dei suoi genitori, della sua famiglia? Il giudice lo aveva aggredito, domandandogli di suo padre e di sua madre. Gli aveva teso un agguato. Pareva a Bianchet che due colpi al collo della padrona fossero due colpi e basta, un atto riconosciuto e chiaro, un evento inequivocabile su cui c’era poco da aggiungere: l’entità della pena e poco più”. Il ritratto del protagonista viene delineato a poco a poco e quasi rivelato interiormente attraverso un’efficace tecnica accumulativa che aggiunge sempre qualcosa di nuovo e di segreto al personaggio, ma anche indirettamente attraverso l’immagine che di esso forniscono i testimoni che si presentano al processo, come il segretario comunale di Treviso Ettore Fassa. Dalle sue parole esce un gustoso affresco di vita paesana. Le baruffe tra le frazioni di San Gaetano e Trevigiano, le risse di osteria, le bevute di vino e le botte, spesso per questione di morose rubate. E Bianchet era uno dei caporioni, tanto che lo avevano chiamato anche in municipio per dirgli di calmarsi. Ma era un buon lavoratore e un buon padre di famiglia. Sempre pronto all’ira, però sempre convinto che il mondo complottasse a suo danno, rancoroso e ostile. “Se la contessa non me la dà la polenta, mi son bon de coparla” aveva detto il Bianchet al Fassa una volta. “Ma è questo il ritratto di Bianchet – commenta il Mazzocato, attraverso il diario del conte Avogrado  o non è forse il ritratto di un’altra persona nelle sue condizioni? Le sue parole che qui suonano con l’eco di una premeditazione, non erano forse parole in qualche  modo normali nella bocca di coloro che, qualunque cosa facessero, ricevevano soltanto ingiustizia?”. Attraverso le testimonianze emerge anche il ritratto della contessa avida, arcigna, spietata e disumana. Ecco al deposizione del gastaldo Francesco Robazza: “dice che tutti i fittavoli sono stanchi di pagare in granone e poi rimanere senza. Dice che la padrona aveva diritto alla metà di tutto:  alla metà dei bozzoli, alla metà della foglia di gelso, alla metà dell’uva. Era come se dicesse metà della vita, metà del sangue, metà dei pensieri, metà del fiato”. Ed ecco quella di Carlo Milanesi, la guardia che lo aveva  arrestato; il pisnente era in maniche di camicia e implorava di lasciarlo andare a salutare la sua famiglia e prometteva che poi si sarebbe costituito. Bianchet aveva tirato fuori dal taschino due pezzi da venti centesimi e aveva chiesto se era possibile mantenere una famiglia con quei due soldi, poi si era quietato: almanco in preson i me darà da magnar, che la contessa non me dava, aveva detto. Durante la prigionia a Venezia Bianchet viene spogliato e fotografato perché si cercava in lui la prova fisica e visibile della pellagra. Sarebbe stato comodo sia all’accusa che alla difesa dimostrare che il povero bracciante era affetto da una malattia che provoca eccessi di follia e reazioni incontrollate. Lui era convinto che era nel cibo che si nascondeva il lento veleno che lo spegneva giorno dopo giorno. Se avesse potuto mangiare qualcosa di diverso, qualche uovo e qualche po’ di carne, anche lui sarebbe potuto sfuggire alla trappola mortale della malattia. La  pellagra aveva i suoi cicli. Se ne parlava molto in paese, soprattutto quando a Montebelluna aprivano a periodi fissi il pellagrosario, ma a Bianchet nessuno aveva saputo dire il motivo di questo andare e venire della sua malattia. Era una bestia viva e vigile dentro le braccia, il ventre, le gambe. Tornava a svegliarsi con la bella stagione e ogni anno era più difficile addomesticarla e tenerla buona.  Man mano che l’escussione dei testi continua, il processo contro Bianchet si trasforma nel processo contro la contessa la cui immagine viene a poco a poco compromessa e demolita e si conclude con la lieve condanna del psinente a otto  e nove mesi. Pietro Bianchet, quando esce di carcere, sparisce con la sua famiglia. E’ noto che gli scrittori veneti scrivono male, a cominciare dal Fogazzaro che il  Fubini accusava di assoluta insensibilità di un linguaggio sempre provvisorio, approssimativo e troppe volte stonato fino alla volgarità, ma la lettura di questo romanzo lascia un’impressione profonda soprattutto per la consumata perizia tecnica e stilistica del Mazzolato per il quale, dopo tanti anni di insegnamento di letteratura italiana, la lingua di Dante non serba segreti e misteri. La lettura del testo rivela squarci sontuosi, come la magistrale  e corrusca descrizione dell’uragano:  La notte era stata serena. A nord, oltre il Montello, si era raccolta una nuvola nera e grossa che era passata all’improvviso sulla luna”.

 

Gianni Giolo

G.D. MAZZOCATO, Il delitto della contessa Onigo, Santi Quaranta

 

COLLINE INCANTATE.

 

“Parlava la vecchia quercia, riferiva le storie che foglie e rami catturavano nel vento, che le radici succhiavano dal terreno raggiungendo lontananze inimmaginabili. I ricordi e i desideri degli uomini, le attese e le loro paure. Memorie di popoli antichi e giovani fantasie di bambini. Le storie erano la linfa stessa della quercia. E suonavano, cantavano mentre circolavano nell’alberi”. Dalla storia alla leggenda e al mito. Gian Domenico Mazzocato, dopo aver cantato le vicende tragiche dei poveri, dei diseredati, dei pisnenti veneti,  si è rivolto a rievocare le leggende e i miti delle colline, delle acque, delle risorgive, dei fiumi grandi e piccoli che nei secoli hanno scavato vallate della sua terra, storie che sono la contemplazione di un paesaggio, di un volto, di un destino, racconti semplici e essenziali,  che narrano vite misteriose  e leggendarie,  nate dal sussurro delle querce e dei venti.  Le anguane, misteriose abitatrici delle acque, Angelino, il più incredibile cantastorie mai esistito, che sa ascoltare le voci della natura, Attila, il terribile unno devastatore, che decide di venire a morire tra le dolci colline ai margini della pianura veneta,  Vito, lo zattiere amico della poiana,  Siro che muore nel bosco per salvare la sua Giustina. E Shant, il ragazzino che approda sul Montello, in fuga dalla sua Baghdad devastata dalla guerra. E tanti altri personaggi e luoghi. La geografia è quella del Montello e delle Prealpi Trevisane. Ma non conosce confini, nel tempo e nello  spazio, l’universo che Gian Domenico Mazzocato propone ai suoi lettori attraverso questo suo affabulare perennemente sospeso fra fiaba e racconto cronachistico.  Fate, santi, personaggi d’oggi, memorie tra storia e leggenda. Tutta la narrativa di Mazzocato, terragna e visionaria insieme, individua i suoi spazi ideali in questa porzione di Veneto, in cui le Alpi si addolciscono in colline e i fiumi di montagna trovano la strada della pianura. Questo libro raccoglie le storie più belle da lui incontrate nel suo narrare. Diceva Goethe che dalla civiltà ci vengono incontro figure magnifiche che sono quelle che hanno saputo raccontarci delle storie in cui tutti ci riconosciamo e che ognuno di noi riconosce come proprie. Un viaggio tra magia e mistero, tra memorie sepolte e vicende dimenticate, come la storia di Rizzardo e di Rosa,  nel cui castello di Vidor si davano appuntamento tanti cantastorie, sotto le ampie volte del salone invernale che raccontavano, accompagnate dalle arcane e struggenti melodie dei liuti, le imprese di Orlando e Roncisvalle, di Lancillotto e Ginevra, il cui desiato riso fu baciato, come canta Dante, dal grande amante, dei cavalieri di Re Artù nelle loro infinite peripezie alla ricerca del Graal. “D’estate  - scrive l’autore – era bello passeggiare sui bastioni, illuminati dalla luna come fosse giorno. La luce lunare era un’onda malinconia e travolgente, che faceva dimenticare perfino quella piccola ansia che albergava in fondo al cuore assieme alla paura che da un giorno all’altro il Nord vomitasse i suoi invasori affamati di preda”. I due eroi, guardano di notte, dagli spalti del castello, la corrente del Piave: “I tronchi scendevano il fiume, galleggiando nell’acqua con movimenti goffi e tonfi sordi quando cozzavano l’uno contro l’altro. Rosa e Rizzardo  li guardavano, oscuri fantasmi nella luce lunare, e sorridevano. Parevano mostri, draghi spaventosi, entità misteriose e deformi,  belve crudeli pronte a levare le loro teste e vomitare fuoco: bastava un’onda e la minaccia spariva, un sussurro di vento, un rumore sordo, un giro d’acqua”.  Che altro sono quei tronchi – si chiede Mazzocato -  se non gli incubi, le apprensioni, le paure, i cattivi presagi che pesano sulla nostra vita e opprimono il cuore? Gli incubi poi diventeranno realtà e vedranno i due giovani uniti nell’amore e nella morte avvolti dalla sabbia chiara del fiume.

Dalla leggenda alla realtà, come nella storia di Caterina Cornaro, regina di Cipro,  che lascia nel suo ultimo viaggio il  castello di Asolo, dove Pietro Bembo aveva recitato i sonetti incandescenti del Petrarca e i versi paradisiaci di Dante e aveva raccontato le dispute  di Gismondo e Lavinello sugli amori infelici, “gravosi e forti” di Piramo e Tisbe, Tarquinio e Lucrezia, Paride e Elena, Paolo e Francesca. Il suo sguardo è triste e rivede la gente di Cipro, assiepata sui moli del porto di Famagosta, che la saluta  con grande sventolio di bandiere, mentre i pescatori la scortano in alto mare. Rivive la sua giovinezza, quando aveva sperimentato tutto dalla vita:  la gioia di essere regina e madre, il pianto del suo uomo ucciso a tradimento, lo strazio per la morte del figlio. Ora guarda per l’ultima volta i dolci declivi delle sue colline, dove il sole settembrino indora i grappoli per la vendemmia ormai prossima, risente il rumore delle stoviglie e il chiacchierio della servitù del castello della sua splendida signoria e rivede i lumi che, in direzione della cinta delle mura costeggiavano il lungo viale e avevano segnato la strada agli illustri ospiti appena congedati, le ultime luci che le apparivano “con uno sfavillio confuso, come di fiamma lontana, chiusa in una teca di alabastro”. Basta un’immagine come questa per rendere le colline incantate di Mazzocato un libro indimenticabile.

 

Gianni Giolo

G.D. MAZZOCATO, Colline incantate, Zanetti