ITALO FRANCESCO BALDO

UN SAGGIO  SUL 1848 VICENTINO

Il 10 giugno 1848 è nel cuore dei vicentini perché rappresenta il momento più alto della rivendicazione risorgimentale della loro città,  che valse a Vicenza la medaglia d’oro “per la strenua difesa fatta dai cittadini contro l’irruente nemico nel maggio e giugno 1848”.  Le cause che hanno determinato la rivolta di Vicenza per sottrarsi al secolare  giogo austriaco sono state studiate in un saggio di Italo Francesco Baldo intitolato “Alcune parole sulla battaglia di Vicenza o disinganno per molti. 1848 di Adone Palmieri”. Le vicende che portano alla rivolta di Vicenza contro la dominazione austriaca hanno ragioni varie e complesse e affondano le radici nell’anelito che, dopo le vicende napoleoniche, segna il destino della città, aggregata con tutta la repubblica di San Marco al regno per volontà delle nazioni europee riunitesi nel congresso di Vienna nel 1814-1815. Latente è l’opposizione verso la dominazione austriaca tra il 1815 e il 1848. A Vicenza le prospettive unitarie, vicine soprattutto a quelle di Antonio Rosmini e di Carlo Cattaneo, si sposano al malcontento popolare per la mancanza di libertà: forte è la pressione della censura, i gravami fiscali soprattutto per le spese militari, il ferreo protezionismo che impedisce la vocazione commerciale dei territori dell’antica Repubblica di Venezia e la coscrizione obbligatoria che sottrae braccia al lavoro agricolo e ai miseri salari degli operai. I progetti di ammodernamento, come la linea ferroviaria Milano-Venezia, vanno a rilento e non stimolano l’economia.  In questo clima tutto il Regno Lombardo-Veneto insorge nel 1848. Le guarnigioni austriache respinte dalle città venete si rifugiano nel Quadrilatero. A Vicenza si costituisce un comitato provvisorio presieduto dall’avv. Gianpaolo Bonollo, che annovera tra i suoi membri Sebastiano Tecchio, don Giuseppe Fogazzaro, Bartolomeo Verona, Giovanni Toniato, don Giovanni Rossi, Luigi Loschi che organizzano ai  primi di aprile i crociati vicentini. Ben presto gli austriaci, dopo aver domato le rivolte di Vienna, si riorganizzano e l’esercito guidato dal maresciallo boemo Radetzky, il 20 maggio, attacca le difese di Porta Santa Lucia e l’esercito vicentino composto da 5000 uomini fra volontari e regolari pontifici. Il primo assalto austriaco viene respinto. Il giorno dopo i vicentini, con il generale Giacomo Antonimi, attaccano a Ponte Alto l’esercito austriaco che si ritira a Verona. Il 23 maggio Vicenza viene assalita da tre punti: Borgo San Felice, la Rocchetta e Monte Berico.  Gli scontri sono tremendi e gli austriaci devono  battere in ritirata.  Il 10 giugno gli austriaci  sferrano a Monte Berico l’attacco finale: ben 30.000 soldati imperiali e 50 cannoni attanagliano la città. I vicentini rispondono all’attacco con un esercito di 11.000 uomini e 38 cannoni. Gli austriaci risultano vincitori e occupano Castel Rambaldo (oggi Villa Margherita), il colle Bella Guardia, Ambellicopoli e villa Guiccioli, vicina al santuario di Monte Berico. I vicentini e i pontifici devono ritirarsi, tentando pure un contrattacco. La perdita di Monte Berico rende indifendibile la città. Sono avviate le trattative di resa, che in realtà è una capitolazione voluta dal gen. Durando, che, in una relazione del 21 giugno,  attribuirà  a Massimo D’Azeglio la caduta della città. Tra le parti si raggiunge l’accordo e a Villa Balbi l’11 giugno 1848 finisce la rivolta di Vicenza, ma i difensori e la guardia nazionale di Vicenza, con a capo il colonnello Giacomo Zanellato, escono dalla città con l’onore delle armi, impegnandosi però a non combattere gli austriaci per 3 mesi, ritirandosi sulla destra del Po. Nel bullettino straordinario del 15 giugno il generale Durando scrive: “Soldati di ogni arma! La prepotenza della fortuna e la forza soverchiante dell’inimico hanno segnato un trionfo un giorno nefasto negli annali dell’italiana rigenerazione, alla quale vi siete consacrati. Quarantamila soldati e cento bocche da fuoco ci hanno impedito di prolungare il miracolo di una difesa…Il profondo dolore che mi trafigge nel rammentare l’esito della infelice giornata del 10, è solo temperato dal pensiero del valore senza pari… L’eroismo soltanto, del quale avete data sì larga testimonianza, poteva farci conseguire  una capitolazione così onorevole siccome quella che ci permette di ritirarci con tutti gli onori della guerra, armi e bagagli…Soldati d’ogni arma! La causa dell’Italia per la quale vi siete mossi non vien meno per il presente infortunio. Ciò solo vi apprenderà che la conquista del supremo dei beni l’indipendenza della patria, non si consegue senza gravi dolori e senza perseveranza… E tutti  noi e tutti i fratelli nostri di ogni parte d’Italia non mancheranno all’alto intendimento sicché ci sia dato d’intuonar finalmente il cantico della redenzione”.                                                                                        La resa di Vicenza, considerata come la vera conclusione della prima guerra del Risorgimento, determina subito conseguenze negative sull’intero scacchiere della guerra, la prima guerra d’indipendenza, che vede il generoso impegno del re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, lasciato però solo da tutti gli altri sovrani della penisola di fronte alle preponderanti forze austriache. A Custoza il 25 luglio 1848 l’epilogo che finisce il primo sogno di indipendenza italiana, nonostante le successive rivolte di Brescia (le dieci giornate) e la nascita della Repubblica Romana, dove si attacca Pio IX,  senza comprendere le ragioni del capo della Chiesa cattolica, con termini offensivi: “O Papa!…nascondi l’impura tua stola, / Ritorna alla Croce, ti prosta, l’abbraccia, / E salga la prece sin dove è tua fè…/ Ma fosti spergiuro! Nascondi la faccia; / Né Cristo, né il popolo più teco non è” (“A Pio IX”, un buon cristiano, dal “Pensiero Italiano”, dicembre 1848). L’idea federalista si infrange, benché propugnata anche a Vicenza dal repubblicano Formenton con il suo “Catechismo politico al popolo” e nonostante il Rosmini, ancora nel settembre 1848, nella sua memoria per la congregazione dei cardinali sugli avvenimenti dichiari: “Non si può dunque fare una lega italiana senza che questa sia una vera confederazione, la quale abbia un potere centrale, una Dieta permanente ed una costituzione federale”. Gli eventi vanno in altra direzione. Sconfitto e costretto all’esilio Carlo Alberto affida le sorti stesse dell’Indipendenza italiana al figlio Vittorio Emanuele, che porterà, ma con altre prospettive, a termine il processo di unificazione nel 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia, non federale, ma centralista secondo il modello francese di origine napoleonica.

Gianni Giolo

I.F. BALDO, Alcune parole sulla battaglia di Vicenza o disinganno per molti 1848 di Adone Palmieri, Editrice Veneta