PAOLO LANARO

VICENZA E  LA VOCAZIONE DELLA  SCRITTURA

Questo è un libro che mancava a Vicenza. Paolo Lanaro, dopo aver edito  tanti libri di poesie, come “L’anno del secco” (1981), “Il lavoro della malinconia” (1989), “Luce del pomeriggio e altre poesie” (1997), “Giorni abitati” (2002), “Diario con lampada” (2005) ha  deciso di mettere insieme in un libro le sue pagine di critico, pubblicate varie riviste e giornali (ne fa un elogio memorabile e, diciamo pure formidabile, Franco Contorbia nel Giornale di Vicenza). Ne  è nata un’opera che è un unicum perché a Vicenza nessuno aveva mai fatto questa operazione di presentare un panorama della letteratura vicentina da Zanella a Meneghello. Non lo aveva fatto Neri Pozza (o meglio sua moglie Lea Quaretti) che si era limitato a presentare un’antologia degli scrittori vicentini.  Lanaro affronta subito di petto il grande mistero della città e degli scrittori vicentini. Una domanda che si era già posto Bandini dicendo, in una conferenza all’Accademia Olimpica,  parafrasando una famosa espressione di Carlo Marx,  che un fantasma s’aggira per Vicenza che è il demone della scrittura letteraria. Ma non aveva risposto a questo interrogativo. Perché Vicenza nel ‘900 ha dato alle patrie lettere un così gran numero di scrittori (Piovene, Gian Dauli, Barolini, Neri Pozza, Sacchi, Meneghello, Rigoni Stern, Parise, Ghiotto, Scapin, Bandini, Nogara) e continua a darne visto il grande successo delle opere di Mario Rigoni Stern e Gianantonio Stella? Ora la seconda risposta che ne dà Lanaro (la prima è evidentemente la casualità) sembra  assurda o apparentemente tale. Insomma la causa dell’amore dei vicentini per la letteratura è il Palladio. No, non è possibile, vien da dire! Ritorna in mente un articolo paradossale di Parise sul Palladio del 1976, in cui sosteneva che “Vicenza non è, né fu mai città composita, fatta cioè di uno sfondo ma anche di primi piani, di persone di umanità, di cultura, bensì, priva come fu e come è di una società, è sempre stata ed è comunque, da ogni angolo la si guardi, uno sfondo e nulla più”. Insomma per Parise e per Lanaro  Vicenza è uno scheletro, una città spettrale su cui sorgono questi monumenti supremi e vertiginosi dell’arte umana che sono i palazzi palladiani e in cui gli uomini e cioè i vicentini non esistono. Vicenza insomma  non è una città, ma solamente “uno sfondo”, anzi – continuando a citare Parise – “è una città fatta come un teatro, è un teatro, appunto con meravigliosi fondali, ricchissima di scenografie intercambiabili, tutte vere, tutte di pietra e mattone e cieli veri, costruita e comunque modellata, personalizzata da un solo scenografo-autore: Andrea Palladio. Egli fu il vero fondatore di Vicenza,  oggetto disposto nella pianura veneta “per bellezza” come si direbbe di un grande oggetto decorativo, ed egli fu e ancora oggi è il suo unico e solo abitante. Il resto non c’è, allo stesso modo di un palcoscenico dove, una volta aperto il sipario, tutta l’attenzione dello spettatore è attirata dalla scenografia e dall’atmosfera che emana dalla scenografia”. Lanaro in poche parole dice che la voglia di scrivere è nata ai vicentini e non – puta caso – ai bresciani, dalla pochezza e dalla miseria  culturale proprie dei vicentini: “Vicenza, alla fine della seconda guerra, è una città in cui a una magnificenza architettonica spettrale fa da contrappunto la grettezza culturale  che il fascismo ha lasciato dietro di sé. Scatta il guizzo creativo. Occorre riempire lo iato tra la grandezza gessosa e impaginata dei palazzi palladiani e un sogno ingenuo di felicità. E come fare? Si scrive un romanzo, sollecitati da un orgasmo mentale, da una speranza febbricitante, alla ricerca di un’armonia perduta e da raggiungere”. Da questo contrasto fra l’essere dell’arte e il nulla culturale nasce il miracolo di un “ragazzo morto e le comete” che è un qualcosa di crudele e angelico al tempo stesso, un istinto commediante che si spiega con la necessità di cancellare una realtà desolante sovrapponendole una scena figurata e patetica. Parise si sente circondato da un mondo inespressivo, Piovene constata l’inutilità di una condizione nobiliare, Meneghello vede tradite le speranze di una palingenesi politica e morale, Rigoni Stern, uscito dalla tragedia della guerra, percepisce tutta la caducità del suo essere sopravvissuto. Ecco i romanzi. Si diventa scrittori per dar corpo a una passione, ma anche per negare ciò che si è e ciò che sta intorno in nome di una lungimiranza e di una realtà seconda che non ha né tempo né luogo, e che può riunire in un colpo solo presente, progetto e memorie. E’ come un rituale che si ripete anche se cambiano gli spartiti e le intonazioni. Un romanzo, un memoriale, un quaderno di liriche, il resoconto di un viaggio, sono le forme di una presenza che vuole giustificarsi pienamente: sono occasioni per “reimparare a essere umani” e suggerire ad altri di esserlo.  Con il romanzo, riempiendo la pagina bianca, lo scrittore vicentino trova la sua personalità e la sua individualità, compie quella ricerca che spingeva Goethe nel 1786 a intraprendere il suo viaggio in Italia (uno dei capitoli più splendidi del libro) per guarire con le bellezze solari della nostra terra le insostenibili incompiutezze dell’anima alla ricerca di un ideale e di un sogno che potessero riempire il suo spirito inappagato e desolato. Scrivere  è l’elevazione dell’oscurità a forma che determina il compito e il destino dello scrittore. Come nelle “Lettere di una novizia” di Piovene che denuncia i mali soffocati dal perbenismo e dalla apparente santità del convento e svela verità inconfessabili e incompatibili con l’ordine morale vigente. “Il suo – commenta Lanaro – è il marchio di un’esperienza inquieta che una società senza scrupoli come la nostra difficilmente è in grado di capire”. E così i disgraziati compagni di Rigoni Stern, sepolti nella steppa russa, non possono entrare nelle associazioni patriottiche, come gli emigranti di cui racconta Stella (e di cui molto ha raccontato lo storico Franzina) non possono entrare negli enti promossi dalle Camere di Commercio: possono entrare soltanto nei libri, dove finalmente gli viene restituita un’esistenza e un’anima negate altrove. E così è stato di Fogazzaro che nel “Santo”, riprendendo le tesi di Rosmini, ha denunciato i limiti della teologia e della pastorale del suo tempo e con tono profetico ha anticipato i principali  temi di rinnovamento della Chiesa che saranno poi del Concilio Vaticano II e che ha incontrato la diffidenza delle gerarchie ecclesiastiche che hanno condannato e messo all’Indice le sue opere. “Non so se sbaglio – commenta Lanaro – ma la condizione di Fogazzaro è quella che pesa su tanti scrittori vicentini: quella tra una localizzazione angusta e un’universalità conseguita attraverso l’eroismo del progetto letterario. Da questo si sono generate dialettiche complesse: tra verità e menzogna in Piovene, tra ribellismo e razionalità borghese in Meneghello, tra nichilismo e senso della tradizione in Parise. Lo stesso Rigoni Stern, che pure schiva i temi dei vicentini di pianura, conferma quello che è il motivo invariante della letteratura vicentina: la lacerazione tra soggettività aperte, mobili, analitiche e una realtà storica e culturale perennemente inclinata verso la chiusura e il conformismo”.

 

                                                                                                Gianni Giolo

 

P. LANARO, In tondo e in corsivo (scritti di letteratura vicentina e veneta), Galla Libreria Editrice, euro 12,00