Scrittori di Vicenza

Introduzione

Fernando Bandini, in una conferenza tenuta all'Accademia Olimpica, definì Vicenza “una città di scrittori” e,
parafrasando la famosa frase del Manifesto di Marx "uno spettro s'aggira per l'Europa: il Comunismo”, dichiarò: “Uno spettro s'aggira per Vicenza: la scrittura letteraria". Vicenza è una città di scrittori o più semplicemente di narratori, non solo perché ha dato i natali a dei grandi maestri del secolo scorso da Goffredo Parise a Guido Piovene,da Silvio Negro a Luigi Meneghello, da Renato Ghiotto a Gino Nogara, da Filippo Sacchi a Antonio Barolini, ma perché Fomenta e infonde in tutti i suoi abitanti il demone entusiastico della scrittura, dal momento che a Vicenza tutti, dai letterati alla gente più umile e semplice, sentono la necessità, come osserva Franco Marcoaldi, di "affrontare la pagina biancai, di affidare al libro i loro sentimenti, le loro emozioni, le loro speranze e le loro memorie. E questo lavoro, che si propone di continuare l'opera meritoria di Lea Quaretti "Scrittori di Vicenza", stampato dalla Neri Pozza nel 1974, vuole dare un piccolo saggio di quanti scrittori-narratori, per lo più sconosciuti e ignoti al grande pubblico (abbiamo volutamente escluso gli autori nominati nel libro della Quaretti), hanno saputo comunicare, attraverso lo spaccato di questa piccola-grande terra, la loro trepida e incantata visione del mondo e della storia. Tutti costoro, possono, a buon diritto, rientrare nella definizione della "vicentinità" e cioè di quella categoria che Parise indicava come “la facoltà di tradurre in passioni intellettuali, astratte, le passioni reali". C'è generalmente in questi narratori quella "qualità visionaria" che Piovene vedeva caratteristica del “genio veneto" e cioè quel tocco di chimerico, imprevisto, inaspettato, fluido, misterioso, di combustione fulminea delle visioni e dei paesaggi che sembrano traboccare tanto nella pittura come nella parola. Lo scrittore vicentino vive come ha scritto Piovene - "in una dimensione in cui qualsiasi passione vi è subito intellettualizzata, per istintivo calcolo di prudenza". Passioni mai esibite, gridate, intere e viscerali, che si sottraggono “al contatto diretto con la carne e il sangue, per viversi intellettualmente, immunizzate, in una proiezione mentale, dove cresce la complicazione quanto più si svuota d'impulso". Rispetto ai grandi scrittori del passato, i nuovi narratori hanno decretato il rifiuto delle forme tradizionali del romanzo per rifugiarsi nelle microstorie e nelle forme brevi del racconto, in un dialogo appassionato e tragico con il passato, in una ricerca di identità che affonda le sue radici nella civiltà contadina, nell'assenza di certezze e nel desiderio di salvare dall’oblio cose e persone, nella nostalgia dell'antico e nella memoria sconsolata ed elegiaca di un universo definitivamente scomparso. In essi abbiamo cercato - come indicava Giacomo Debenedetti - “i ritratti, le immagini, le vicende, le parabole di destino che aiutano a scoprire il senso e il fine della vita, cosi come si prospetta all'uomo d'oggi". Letteratura quindi non esibita ma riflessa, come in una specie di labirinto narcisistico, che si contempla e si compiace, privilegiando la dimensione umbratile della memoria di un mondo perduto e irritornabile, nutrito di un “involucro fatto di fili infinitamente sottili, tessuto dalla paura di veder chiaro: un intellettualismo endemico, sordo, silenzioso, non critico che adopera il diversivo dell'acutezza e dell'analisi per tutelare, preservare, variegare un fondo compatto d'usanze e idee conservatrici".
Questi narratori devono tutto a Vicenza, città d'arte e d'invenzione, nel suo aspetto antico, nata dalla fantasia del più grande architetto del mondo, che ne voleva fare una piccola Roma, dove palazzi e frammenti di palazzi creano uno scenario da accademia di architettura, a questa terra ridente e trasognata, dove le ville patrizie, dai fastosi portici a colonne greche, allineano timpani ornati di statue classicheggianti ai frontoni di chiese romaniche o barocche, alle cuspidi di campanili suscitatori di rintocchi carichi di una ancestrale mestizia che è connaturata allo spirito di questa regione. Quella mestizia che Nella Bucci Cavallaro avvertiva quando scriveva: "ricordo le campane che mi svegliavano nei giorni di festa, nel primo mattino, e quelle un po' malinconiche dell'Ave Maria della sera. Le campane di Natale avevano un suono ovattato, dovuto alla neve che, nella mia infanzia, accompagnava quasi sempre la Messa di mezzanotte; quelle di Pasqua avevano un suono radioso, squillante, che andava dilatandosi per la campagna, osannando a una Risurrezione totale". intima malinconia che si espande e si riverbera in una natura concepita sempre con un'anima che arreca consolazione e conforto, con “il più dolce paesaggio del mondo", come lo chiamava Guido Piovene, filtrato di vapori, molle e sfumato, evasivo e stravagante, dai colli morbidi nelle linee e nei colori, che spuntano in mezzo alla pianura e vi rimangono come sperduti e con un cielo dalle tinte dolci e tenui che invita alla moderazione e a una concezione pacata e serena della vita.

Gianni Giolo