La Magia

Presentazione

Lucio Apuleio: la vita e le opere

125 d.C.

Apuleio nasce a Maduara, in Africa. Il prenome Lucio non è sicuro, perché compare solo in alcuni manoscritti tardi. È il tipico  intellettuale cosmopolita e versatile, dedito ai più vari generi letterari come l’oratoria, la filosofia e la narrativa, con una straordinaria esperienza sia della lingua greca sia della lingua latina. Sul piano filosofico, oltre all’insaziata curiosità verso la magia, pratica una mescolanza fra la filosofia platonica (volgarizzata) e vari elementi religiosi orientali, in particolare i culti misterici (iniziatici) della dea Iside.

   Studia a Cartagine grammatica e retorica, ad Atene filosofia platonica; viaggia molto in Oriente; a Roma esercita l’avvocatura; nelle pause dei viaggi è conferenziere brillante e oratore di successo.


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Viene processato a Sabratha per magia (per tale reato era prevista la condanna a morte), ma viene assolto dopo un'abile difesa. La vicenda è documentata dall’opera La magia (De magia liber), un’orazione che rielabora l’autodifesa nel processo intentatogli per aver plagiato una ricca vedova con un filtro magico al fine di assicurarsene l'eredità. Apuleio si difende abilmente, combattendo l’inconsistenza delle accuse con il sostenere di essere non un mago ma un filosofo.


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È questa la data oltre la quale non si hanno più notizie su Apuleio, che trascorse comunque gli ultimi anni della sua vita a Cartagine, al centro della vita pubblica come celebre e apprezzato oratore.


Altre opere oltre La magia: 


   Antologia (Florida): comprende alcuni brani divisi in 4 libri che  formano un’antologia oratoria, forse ricavata da una più ampia  raccolta perduta compilata dallo stesso Apuleio.  

   Platone e la sua filosofia (De Platone eiusque dogmate): si tratta  di una volgarizzazione incompleta della dottrina di Platone, nella quale confluiscono motivi mistici e pitagorici che caratterizzeranno il futuro sviluppo del neoplatonismo. Ne restano i primi due libri. 

   Il dio di Socrate (De deo Socratis): nata come una conferenza, l'opera è diventata una fonte capitale per la demonologia antica, cioè per conoscere natura e funzione dei demoni (che partecipano della natura divina e umana).  

   Il mondo (De mundo): rifacimento di un trattato greco sul cosmo e sul mondo.  

   Metamorfosi (Metamorphoseon libri XI): romanzo fantastico, influenzato alla novella milesia, una forma narrativa orientale dai marcati caratteri avventurosi ed erotici, in genere dal lieto fine.  

Il narratore, il giovane greco Lucio, racconta in prima persona del suo interesse per la magia come causa della propria trasformazione (da qui il titolo) in asino. Dopo una lunga serie di avventure, grazie all’intervento della dea Iside l’asino Lucio ritorna uomo e si dedica al culto della dea: romanzo iniziatico, quindi, nel quale le disavventure sono altrettante prove che l’eroe deve superare; ma poiché alla fine del romanzo il giovane protagonista pare identificarsi con Apuleio stesso, possiamo parlare di  romanzo iniziatico a sfondo autobiografico (Pianezzola).  

   Romanzo nel romanzo è La favola di Eros e Psiche, che è stata  tradotta e proposta in questa collana.  


Scenari di magia nell’antica Roma 


Il testo del De magia fu scoperto dal Boccaccio in un codice, contenente anche gli undici libri delle Metamorfosi, che era consevato nel convento di Montecassino e si trova oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. L’interesse che riveste è grandissimo, già a partire dal fatto che si tratta dell’unico discorso giudiziario latino dell’età imperiale giunto fino a noi.

   Un altro motivo di interesse è, per lo studioso di diritto romano, il reato imputato ad Apuleio, un presunto crimen magiae che, pur nella raffinatezza di quella legislazione giudiziaria non era, come tale, specificatamente contemplato. Si può supporre che rientrasse sotto i casi previsti della lex Cornelia de sicariis et veneficiis, che evoca figure come quella dell’assassino prezzolato o dell’avvelenatore, sicuramente più familiari ai Romani di quanto non lo fossero i seguaci di certe correnti tardo-platoniche, i maghi o i taumaturghi operanti alla periferia dell’impero.

   Un terzo motivo di interesse è il legame di quest’opera con le Metamorfosi, in cui la magia (è proprio il desiderio di conoscerne il mondo misterioso che innesca le avventure del protagonista) è tutt’altro che assente. 

   La magia infine ci introduce in un mondo tanto affascinante quanto sconosciuto nel campo della letteratura sia greca sia latina, nel mondo avvincente, oscuro e misterioso delle credenze popolari, dell’irrazionale, delle pratiche in uso fra gli strati sociali più emarginati che raramente avevano trovato accesso nelle grandi opere classiche.


Bisogna chiarire subito che gli antichi avevano un concetto diverso della magia da quello oggi diffuso. Uno dei più grandi studiosi di questo fenomeno, Hermann Usener, definiva la magia  come una componente importante della religione popolare, della religione delle masse (soprattutto delle popolazioni rurali), dunque vicina alle origini della religione come primitiva manifestazione dello spirito: si tratta di una concezione d’impronta palesemente romantica, che tuttavia anche oggi conserva la sua validità.  

   Nel mondo latino però la magia non era un fenomeno diffuso  solo fra le masse rurali e presso il popolino sprovveduto e superstizioso, ma interessava e investiva anche le classi più colte e gli  intellettuali. Ne è prova significativa un passo del Brutus di Cicerone, che rievoca un episodio del 79 a.C., riguardante C. Scribonio Curione: “In una casa privata, ma importantissima, dopo  che ebbi perorato, in seguito alla difesa di Cotta, per Titinia  (egli m’era avversario per Servio Nevio), all’improvviso si  scordò tutta la causa. Diceva che ciò era avvenuto per effetto di  filtri e incantesimi di Titinia”. Si tratta di una situazione classica di sortilegio giudiziario: l’avversario lega la lingua del suo nemico, in modo che questo non sia più in grado di difendersi. Cicerone fa capire che giudica l’accusa come un cattivo pretesto del collega, di cui era nota la mediocre memoria. «Resta il fatto” commenta Fritz Graf, nel suo libro La magia nel mondo antico “che, per essere credibile, una menzogna deve essere ancorata nella realtà, deve corrispondere a una credenza diffusa, né  troppo assurda né troppo marginale. È evidente che, all’epoca di Cicerone, la stessa classe dirigente credeva nei malefici.”


I malefici, il malocchio, la cosiddetta ‘magia nera’ (Apuleio distingue fra una magia nobile che potremmo definire ‘teurgia’, e una magia volgare, popolare, abietta negli intenti e nelle pratiche, che potremmo definire ‘goetia’) erano specificatamente puniti dalle Dodici Tavole (vi accenna anche Apuleio, nel cap.XLVII) che, come nota Seneca, prendevano provvedimenti “affinché nessuno facesse scomparire con incantesimi il raccolto altrui». La legislazione più antica romana rifletteva dunque le diffuse credenze di una tipica società rurale come quella di Roma arcaica, che temeva gli incantesimi e il malocchio. Lo attesta anche Virgilio, il primo poeta latino che affronta la tematica magica, propria di un mondo di pastori e di contadini: nell’ottava ecloga ci presenta infatti Meri mentre “evoca le anime dal fondo dei sepolcri e porta da un campo all’altro le messi”. Il passo è ripreso da sant’Agostino nella Città di Dio, che definisce la magia come “scienza funesta e scellerata”, perché diretta manifestazione delle forze del male, strumento del demonio per ostacolare la diffusione del Vangelo, e condanna gli incantesimi “per l’innegabile danno che portano al genere umano”.

   Anche la succitata lex Cornelia dell’81 a.C. pone sullo stesso piano il delitto a mano armata (sicariis) e il delitto perpetrato con azioni non visibili dovute ad arti magiche (venefìciis).

   Plinio il Vecchio ci parla di un processo avvenuto nel II secolo a.C. particolarmente significativo perché presenta non poche analogie con quello di Apuleio. Un forestiero, C. Furio Cresimo, viene accusato dai contadini limitrofi di ottenere un raccolto molto superiore al loro con arti magiche (venefìciis). Il reato era previsto, come sappiamo, dalla succitata legislazione delle Dodici Tavole.

Cresimo si presenta in tribunale portando i suoi strumenti di lavoro, zappe, vomeri, buoi, schiavi e dice ai giudici: “Questi sono i miei malefici, e non posso mostrarvi o portare nel foro le mie notti di lavoro, le veglie e i sudori”. Fu assolto all’unanimità e reintegrato a pieno titolo nella società che voleva eliminarlo.


Anche Apuleio è un filosofo straniero che capita nella piccola città provinciale e contadina di Oea e riesce a sposare una delle donne più in vista, la vedova Emiliana Pudentilla, avvenente, intelligente e ricchissima (si parla di quattro milioni di sesterzi). Le personalità più eminenti del paese si erano fatte avanti per chiedere la sua mano, ma lei si era rifiutata. Il successo di Apuleio scatena le reazioni più violente da parte della comunità che vede nel nuovo arrivato una minaccia dell’ordine sociale e vuole espellerlo, anzi, Erennio Rufino, suocero del figlio di Pudentilla, minaccia di ucciderlo di propria mano. Anche il filosofo, come Cresimo, viene accusato di crimen magiae e giudicato in base alla lex Cornelia ma, a differenza di Cresimo, la sua non è magia rurale, ma erotica. Il capo d’imputazione è di esser mago e avvelenatore (magus et veneficus). 

   La difesa di Apuleio è abilissima, perché sposta l’accusa contro la magia in accusa contro la filosofia: la sua orazione non è una difesa della magia, ma della filosofia. Egli conduce l’arringa dando fondo alla sua straordinaria abilità retorica e procedendo su due piani: da una parte il più totale disprezzo contro i suoi avversari, che definisce ignoranti, rozzi e cafoni, e dall'altra massime lodi nei confronti del giudice Claudio Massimo, proconsole della provincia d’Africa, persona colta e istruita, ma non certo come l’imputato vuol far apparire. L’eloquenza strabiliante e virtuosistica sortisce l’effetto sperato: l’imputato viene assolto, ma Apuleio, a differenza di Cresimo, non vuole integrarsi nella società che lo ha respinto, e punta solo al riconoscimento del suo ruolo di filosofo itinerante e cosmopolita. In seguito infatti egli e la moglie lasciano Oea e lo ritroviamo a Cartagine, città ricca, civile e raffinata, in vesti di retore famoso e acclamato.

   Ma alla fine, che cosa pensare dell’accusa mossa ad Apuleio? Siamo costretti a lasciare questo interrogativo irrisolto. Malgrado la solidità, l’arguzia e il brio delle sue argomentazioni, se il giudice lo assolse, la fama di mago gli rimase: anche sant’Agostino credette che fosse tale.