Gianni Giolo
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CESARE PAVESE

 

FACCIO E DALLA PALMA RICORDANO LA MORTE DI PAVESE.

 

“A cent’anni dalla morte di Cesare Pavese due grandi scrittori presentano un grande scrittore. Amiamo gli anniversari perché amiamo i ricordi perché sappiamo che chi scrive non muore mai”, con queste parole Chiara Ferronato, presidente del Cenacolo degli Scrittori Bassanesi, ha presentato gli scrittori Mario Dalla Palma e Antonio Faccio che hanno commemorato la morte del grande autore de “La luna e i falò”. “L’ultimo giorno di Cesare Pavese” è il racconto che Mario Dalla Palma ha scritto quest’estate e che è stato letto dalla stessa presidente. Così la Ferronato ha introdotto il racconto di Dalla Palma: “Il 27 agosto del 1950 moriva, nell’albergo Roma in Piazza Felice, a Torino, Cesare Pavese. Aveva quarantadue anni. Lo fa con tenerezza e amore, l’amore convulso e, insieme, rispettoso che uno scrittore nutre verso un altro scrittore, quello che ha molto amato, in gioventù e poi sempre, con esclusione quasi ossessiva, sapendo di lui tutto, parola per parola le sue poesie, i suoi racconti, i suoi romanzi, conoscendo di lui tutto: donne, gesti, abitazioni, luoghi. Questi legami (indifferenti ai più) sono, in realtà, sconvolgenti. Come giocatori chiusi dentro l’inevitabile spira dell’io-spia, i protagonisti danno vita ad un viavai di riti, di conflitti, di omaggi in codice, di risarcimenti, di vapori di verità. Solo i grandi scrittori, quindi, possono scrivere dei grandi scrittori. Così Mario Dalla Palma di Cesare Pavese”.  Il racconto incomincia così: “La finestra della stanza non molto ampia inquadrava, lucida cartolina, i tetti con le macchie scure dei colombi di alcuni palazzi, in parte della vicina stazione di Porta Nuova. In alto, ad orlo, una striscia d’azzurro. La luce già smessa l’intensità, il nitore della piena estate. L’albergo Roma per la fine agosto e l’ora, quasi mezzogiorno, avvolto nel silenzio”. Un brano di grande indimenticabile poesia. Dopo la lettura del racconto di Dalla Palma lo scrittore Faccio ha detto: “Mi congratulo con Dalla Palma del racconto, un bel racconto nel quale si sente una conoscenza profonda dell’interiorità di Pavese, anche se si tratta  di un ricostruzione poetica della morte di Pavese,. I fatti però non si sono svolti così come ha esposto Dalla Palma. La fine di Pavese è stata descritta dal libro di Giovanni Lauretano nel libro “Le tracce di Pavese”. La tesi divergente fra i due scrittori sulla morte di Pavese riguarda il fatto che, secondo Faccio, Pavese si sarebbe alzato dal letto e sarebbe andato verso la porta per chiamare aiuto, forse perché si era pentito di aver cercato la morte con le bustine di sonnifero, tesi decisamente respinta da Dalla Palma che ha letto attentamente il referto della constatazione della morte di Pavese del commissario Costa. Pavese aveva per Faccio delle “terribili incertezze” ed è plausibile la tesi che si sia pentito di aver voluto la morte. C’è la famosa biografia di Pavese di Davide Lajolo, che era suo amico, con cui era stato assieme al Premio Bagutta, che ricostruisce nella maniera più attendibile la morte di Pavese. La decisione di morire era nata dopo la confessione delle ultime pagine de “La luna e i falò”, dove lo scrittore distruggeva ogni speranza e ogni volontà di resistere allo sfascio e al disastro dell’esistenza. Pavese amava la vita – ha sottolineato Faccio – e provò degli sprazzi intensi di felicità che egli esprime nelle sue lettere autografe in cui dimostra grandissima sensibilità verso l’amore, l’amicizia e la voglia di vivere. Ma il suo male oscuro era la sua solitudine, che era il suo vizio assoluto, come giustamente Lajolo mette in luce. Era il suo male  profondo che nessuna cosa poteva guarire del tutto. Pavese ricorda la morte di suo padre, ammalato di cancro al cervello, quando aveva sei anni. Anche lui come suo padre si metteva le mani e si bagnava la testa e diceva: “Anch’io sento il male di mio padre”. Il suo male non era il  cancro al cervello ma la sua incapacità, il suo vizio assurdo  di resistere alla vita. Con questo non si vuol dire che Pavese non avesse, anche al liceo, con i suoi amici, con Monti, con le donne capacità di amicizie, di affetto e di amore. A Roma era circondato da persone che gli volevano bene. Ma il suo ultimo periodo di vita è stato tragico. E’ solo, nel mese di agosto del 1950, in città. Non ha compagnia. Invita un’amica che è una ballerina. Ha cercato in tutti i modi di resistere a questa tentazione di suicidarsi. Lo scrittore si è suicidato dopo anni e anni di guerra a questo suo vizio assurdo. Si è fatto perfino comunista, ha scritto articoli violenti. C’è una sua frase significativa: “Chi non combatte è sempre fascista”. Bisognava combattere e Pavese ha messo in moto tutto il suo spirito di ribellione e di resistenza e di amore per la vita per combattere quel vizio assurdo che lo spingeva a odiare la vita. A un certo punto egli scrive: ”Sono schiacciato dagli impegni che ho preso”. Era schiacciato dagli impegni che egli aveva assunto con il partito comunista, ma egli aveva la preoccupazione di apparire un traditore e un disertore di quel partito. Egli aveva fatto il partigiano e la resistenza, ma non aveva mai perso in mano un’arma. Pavese era un uomo veramente fragile e su questo tutti sono d’accordo. Fragile che amava le donne forti. Lui capiva che queste donne erano forti e reprimevano la loro femminilità, diventando mascoline e lui invece sentiva di amarle perché non era mascolino, psicologicamente fragile, perché troppo emotivo nell’amore,  nell’amplesso con le donne e queste donne lo liquidavano dicendogli: “Sei un bravo scrittore, sei un grande poeta, ma non sei buono con le donne”. E lui ne soffriva. Questo il suo difficile rapporto con le donne di cui era innamorato. Dal primo appuntamento quando era diciassettenne nel 1925 con la Pucci la “divina”, una ballerina che lavorava alla Meridiana, uno dei locali torinesi alla moda, appuntamento che lo fece stare in attesa per sei ore sotto la pioggia per poi tornare a casa da solo fradicio e tremante. Pavese non capiva le donne e finiva sempre per ricavarne delusioni e risentimenti: quello di Pucci fu soltanto il primo di una lunga serie di insuccessi con l’altro sesso che alimentarono continuamente la sua “inquietudine angosciosa” disperata e disperante. Per esempio, la  Tina, impegnata politicamente negli ambienti antifascisti, oltre che impegnata sentimentalmente, della quale si era innamorato: soltanto per farle un piacere e ingraziarsela,  si era messo nei guai con la polizia fascista e ne fu mandato al confino. Poi chiese inutilmente per ben due volte di sposarlo a una giovane, bella e promettente allieva, di buona famiglia, benestante, trasferitasi da Genova a Torino, ma ebbe entrambe le volte un rifiuto. Quella studentessa era Fernanda Pivano che tradusse la celeberrima “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters. Nell’immediato dopoguerra Pavese, scrittore affermato, che viveva spesso a Roma per conto dell’Einaudi, si innamorò dell’attrice Costance Bowling, una donna in fuga, che usciva da una lunga relazione con il famoso regista cinematografico Elia Kazan, che, sposato con prole, dopo dieci anni la aveva lasciata. Sedotta, illusa a lungo e alla fine abbandonata, delusa e amareggiata non aveva certo tempo per Pavese. “Certo – scrive Giuseppe Puppo – che Pavese doveva proprio andarsele a cercare col lumicino, le donne sbagliate!”. Quest’ultima delusione gli sarà fatale. Al rifiuto che ne ebbe, al “tormento dell’inquietudine e del vano desiderio” (tanto per citare un verso di Laster Lee tradotto dalla Pivano) che  gli trasmise, all’abbandono, egli non resse, non riuscì a sopravvivere. L’ultimo disperato grido di aiuto lo affidò al suo diario: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto”. Il gesto, quella notte, in quella stanzetta spoglia e anonima: ingoia una forte dose di barbiturici e si lascia morire avvelenato. Sul frontespizio di un suo libro, lasciato sul comodino, aveva lasciato le sue ultime parole, rivolte agli “amici” sordi e ciechi: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Ma Lajolo – ha detto Faccio – ha saltato una cosa importantissima sulla morte di Pavese che non doveva saltare e cioè non ha scritto che il grande torinese prima di suicidarsi ha pregato. Nel “Mestiere di vivere” Pavese ha scritto: “16 agosto 1950. La mia  parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti…Non scriverò più” e poi: “Non ho più nulla da desiderare su questa terra… La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà”.

 

                                                                                                Gianni Giolo

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